Il divario con l’Europa e la fuga dei cervelli, frutto di concrete opportunità
Cosa significa oggi frequentare un’università in Italia? Nel momento in cui tutto il sistema formativo globale è in una corsa per adattarsi alle nuove esigenze del mercato, ci troviamo di fronte a una realtà che sembra arrancare.
I numeri parlano chiaro: l’Italia ha università di qualità, ma l’appeal, soprattutto per i giovani, scende. I nostri atenei faticano a tenere il passo con le eccellenze europee, e l’emorragia di studenti verso l’estero ne è la prova. È un quadro preoccupante, che dovrebbe far riflettere sul ruolo e l’efficacia della nostra formazione terziaria.
Guardiamo i dati. Nel 2023, solo quattro università italiane sono entrate nella top 200 del QS World University Rankings:
il Politecnico di Milano, l’Alma Mater di Bologna, la Scuola Normale Superiore e la Scuola Superiore Sant’Anna. Questi risultati rappresentano delle “isole felici” in un mare di mediocrità, che in Europa rischia di lasciare il nostro sistema formativo indietro.
Un gap che non è solo una questione di prestigio ma di concrete opportunità. Perché mentre altri atenei europei investono massicciamente in ricerca, collaborazioni internazionali e innovazione tecnologica, molti istituti italiani restano ancorati a un modello di formazione più teorico che pratico. E così i giovani si sentono più attratti dai campus internazionali, dove i corsi sono più allineati alle richieste delle aziende e le prospettive di tirocinio e impiego sono concrete.
Ogni anno, migliaia di studenti italiani si trasferiscono all’estero per proseguire gli studi.
Nel 2022, sono stati oltre 90.000 i ragazzi che hanno scelto di laurearsi in paesi come Regno Unito, Germania e Paesi Bassi. Si tratta del fenomeno della “fuga dei cervelli”, un esodo che impoverisce il nostro tessuto formativo e produttivo.
Ma questa è solo una parte della storia.
Chi sceglie di studiare fuori dai confini nazionali non cerca solo un titolo di studio: vuole accesso a una rete di contatti, opportunità di lavoro, un’esperienza pratica che, in Italia, appare frammentata e raramente sistemica. E non si tratta solo di una questione economica, perché molti di questi giovani resterebbero in Italia se trovassero percorsi di tirocinio e programmi di studio più orientati al mercato.
Mentre i grandi campus europei offrono programmi di internship in collaborazione con le aziende fin dal secondo anno, in Italia siamo fermi a uno stage curricolare che arriva, se va bene, all’ultimo anno. E qui si annida un altro grave ritardo del nostro sistema: l’interazione tra università e aziende è ancora debole, episodica, spesso lasciata alla buona volontà dei singoli professori o uffici stage.
Un esempio concreto? La Germania e la Svizzera, con il loro sistema duale di alternanza studio-lavoro, sono in grado di garantire agli studenti la possibilità di mettere in pratica le conoscenze acquisite fin dai primi anni. Questo non solo rafforza le competenze tecniche, ma permette ai ragazzi di inserirsi nel mercato del lavoro già “rodati” e con un network di contatti utile per future opportunità.
In Italia, purtroppo, siamo lontani da un modello simile, e il costo lo pagano i giovani, costretti spesso a stage gratuiti e a inserimenti professionali tardivi.
Ma la domanda è anche un’altra:
è ancora valida l’idea che l’università sia per tutti? In un mercato che richiede sempre più competenze specifiche e formazione specializzata, forse dovremmo chiederci se il modello universitario tradizionale sia la scelta più efficace. Non tutti i percorsi di studio portano allo stesso futuro professionale, e orientarsi tra corsi di laurea non è sempre facile. Alcuni paesi europei hanno già iniziato a esplorare percorsi alternativi, come corsi di laurea professionalizzanti più brevi e focalizzati, in linea con le esigenze delle industrie locali.
Se vogliamo un’università che non solo formi ma trattenga i suoi studenti, servono investimenti, visione e una decisa riforma.
Serve un modello che non si basi soltanto sull’accumulo di titoli, ma che garantisca sbocchi professionali, opportunità di ricerca e percorsi di carriera coerenti con le aspirazioni dei giovani. In un’epoca dove le competenze sono la chiave di accesso al lavoro, il sistema universitario italiano non può permettersi di restare ancorato a un passato ormai distante.
Questa è una sfida che riguarda non solo il mondo accademico, ma l’intera nazione. Perché un’università che funziona è la base di un’economia che cresce.