La condivisione è il futuro ma il Covid ha avuto effetti
Saranno condivisione di risorse, relazione orizzontale fra persone e organizzazioni, scambio e mercato con l’utilizzo di piattaforme digitali come luoghi virtuali di incontro le vie maestre della conversione green? Tutto questo si chiama sharing economy e non è un fenomeno nuovo. Esiste lo sharing in senso stretto, cioè condividere l’auto, la casa, il luogo di lavoro, i vestiti, il computer, e una costellazione di altre forme: il baratto tra privati o aziende; la vendita online di prodotti; l’offerta di servizi; le pratiche di raccolta fondi online. Lo scopo è spingere al consumo consapevole, al benessere sociale, alla riduzione degli sprechi. Funziona? Come si combinano condivisione, collaborazione e cooperazione? Ne parla Ivana Pais, che insegna Sociologia economica all’Università Cattolica di Milano. «Bisogna essere analitici quando si parla di sharing economy, non tutte le forme favoriscono l’economia circolare. Per esempio, il car-sharing lo fa e non lo fa: la mobilità condivisa porta vantaggi perché riduce il numero di veicoli in circolazione, ma alcune recenti ricerche indicano che spinge le persone a usare più l’auto che i mezzi pubblici».
Come si evolve l’idea di “condivisione”?
«La pandemia ha accelerato molti meccanismi di circolarità. Alcuni virtuosi. Per esempio, ne sta uscendo incentivato il riutilizzo degli oggetti, degli abiti, sempre tramite le piattaforme digitali. La vendita e lo scambio di abiti ha un impatto anche economico. Perché grazie alla legittimazione culturale di cui ora gode, ha soppiantato il modello di consumo“fast fashion”, cioè spendere poco per vestiti di scarsa qualità e buttarli via spesso, cioè comprare sempre nuovo e mai riutilizzare».
E qual è l’impatto economico?
«Se l’usato rimane in circolazione, aumenta la richiesta di capi di qualità più alta e la filiera produttiva è stimolata a prendere quella direzione, recuperando l’idea di un prodotto durevole, con vantaggio di tutti. Un’altra tendenza è quella del noleggio dell’abbigliamento. C’è qualche insidia anche in questo caso: l’impatto ecologico di spedizione, restituzione e lavaggio. Siamo virtuosi a monte, molto meno a valle».
La transizione quanto è stata agevolata dalla pandemia?
«Per certi versi molto, grazie all’impulso alle piattaforme di scambio. Per altri il contrario: l’economia collaborativa avrebbe fondamento nell’incontro fra le persone, che il virus ha limitato. Però è vero che questo modello si sta applicando bene all’economia di prossimità: il contatto con i produttori locali, l’impulso dato al cibo a km zero. La prossimità territoriale veicolata dalle piattaforme digitali è un aspetto forte, permette nuove relazioni: molte piattaforme sono locali e forniscono servizi di welfare, dai medici alla ricerca di badanti, di babysitter, e altri servizi alle persone».
La pandemia sta allentando la morsa. Cambia qualcosa, si tornerà indietro?
«Non credo. Un fenomeno interessante è il crowdfunding: un tempo puntava a raggiungere persone lontane; oggi invece si fanno soprattutto campagne locali, sulla promozione del territorio, iniziative culturali locali, raccolta firme, supporto agli ospedali. Durante i lockdown si dava la caccia ai finanziamenti per l’acquisto di mascherine o per comprare ambulanze, poi la tendenza è continuata. Sono anche nate piattaforme di crowdfunding che vincolano le campagne che ospitano agli obiettivi europei di sviluppo sostenibile, come Produzione dal basso, Rete del Dono ed Eppela”.